Io torno se finisce la politica dei clown e se si comincia a proteggere seriamente le ricchezze italiane: identità storica e culturale, piccola imprenditoria ed educazione pubblica.
Elena Perazzini, 44 anni, scrittrice italiana a New York
Elena Perazzini era partita per una breve permanenza a New York. In 3 mesi avrebbe voluto migliorare il suo inglese ed esplorare la Grande Mela, come facevano in tanti nell’epoca pre-11 settembre, quando ottenere un visto non era un’impresa impossibile.
Era il 1997 e aveva 28 anni. Da allora non è più tornata stabilmente in Italia, anche se ogni anno medita di farlo. Nel corso degli anni è stata free-lance producer, assistente personale di Oriana Fallaci per Rizzoli, ha gestito un ristorante romagnolo, ha lavorato come traduttrice di serie televisive, nel settore immobiliare, all’interno del famoso Rainbow room, un ristorante per eventi che è una sorta di monumento storico della città.
Da qualche anno ha deciso di dedicarsi alla scrittura, arrivando a pubblicare in questi giorni il suo terzo libro: “Via da noi – Italiani ma in America”. C’è qualcosa che la tiene legata come un cordone ombelicale a New York. Forse è quel senso di opportunità continue, che negli anni le hanno permesso di reinventarsi più volte. Forse sono gli incontri frequenti con persone estranee a qualsiasi forma di ordinarietà. Oppure è la mentalità americana, opposta a quella italiana, di rifiuto di qualsiasi chiusura all’interno di convenzioni o maschere sociali.
«New York è una città che accoglie solo persone che hanno un talento o una dose elevata di grinta e perseveranza: per questo è un contenitore di idee e di energie, più che in altri luoghi. Un’altra cosa che mi ha colpito molto all’inizio è il fatto che qui le persone eclettiche sono molto valorizzate: io ho studiato giurisprudenza, facevo teatro e danza, mi piaceva scrivere. In Italia la mia ecletticità era considerata mancanza di determinazione, qui invece è un valore».
Il quartiere in cui vive, Manhattan, le offre anche ispirazione per la sua scrittura, che nella sua Romagna trova con più difficoltà. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: aspetti della cultura americana che Elena proprio non sopporta. «Innanzitutto non mi piace che il primo valore della vita sia il denaro, il che si riflette quasi in tutti i rapporti umani. C’è un capitalismo estremo e una competizione altissima. E poi è triste la sensazione di non avere alcun tipo di assistenza dello Stato se si è in difficoltà: essere poveri in America può essere più drammatico rispetto a esserlo in Europa. Infine l’America è un posto che non ha una storia e delle radici: questo è un aspetto che mi manca tantissimo dell’Italia e che si riflette molto anche nel modo di concepire la vita degli americani. Mai guardarsi indietro è sbagliato».
Pochi mesi dopo essere arrivata in America, Elena, come detto, si ritrovò a fare la personal assistant di Oriana Fallaci per Rizzoli. «In media le assistenti della Fallaci duravano tre settimane. Io sono durata 6 mesi e ho ricevuto i complimenti dai giornalisti. Lavoravo nel suo ufficio alla Rizzoli e le organizzavo interviste, appuntamenti. Era una persona con un carattere difficile e alla fine mi licenziò per una stupidaggine. Nonostante ciò abbiamo trascorso insieme momenti molto intimi, belle giornate a conversare. Il nostro rapporto è raccontato nel mio libro “La segretaria dello scrittore”».
Dopo esperienze lavorative di vario genere, Elena ha gestito con suo marito, per 5 anni, un ristorante romagnolo, dal quale sono passati anche grandi personaggi dello spettacolo, come Quentin Tarantino. «Ho chiacchierato diverse volte con lui. È un salutista, beve solo acqua minerale».
Dopo aver deciso di vendere il ristorante, Elena si è messa in cerca di un lavoro part-time per potersi dedicare alla scrittura nel resto del tempo. «La narrativa richiede una seria disciplina e mi sono messa in testa di raccogliere le storie che avevo scritto nel periodo del ristorante: ne è venuto fuori il mio primo libro, “Tre stop a New York”».
In questi giorni Elena è in Italia per presentare il suo terzo libro, editore Barbera, “Via da noi – Italiani ma in America”. «Volevo capire se anche loro, come me, a un certo punto si erano trovati in un limbo in cui non appartenevano più alla loro cultura d’origine e nemmeno a quella che li aveva accolti. Volevo esplorare questa prospettiva. La risposta di tutti è stata la seguente: non volevo andarmene dall’Italia, ma dagli italiani e dalla loro mentalità. Ho raccontato per lo più storie di prima generazione, cioè di persone emigrate negli ultimi 20 anni, e mi ha sorpreso scoprire che il sogno americano è ancora molto vivo tra i giovanissimi».
Solo due storie del suo libro iniziano negli anni ‘60: quella di un’ importante scienziata romana di 83 anni e quella di un drammaturgo dell’Aquila, famosissimo a Broadway e sconosciuto in Italia. «Nel libro ci sono 7 storie che sono veri e propri racconti, e delle cronache brevi che parlano di giovanissime coppie, appena laureate, che si sono trasferite col progetto di costruire una vita e una famiglia a New York, senza alcuna idea di ritorno. Sembrano essersi ricreate, in questo senso, le dinamiche della vecchia emigrazione».
C’è poi la storia di uno chef romagnolo famosissimo a Hollywood, Gino Angelini: «un uomo che vive con la costante nostalgia della sua terra, e soffre molto per questo. Tante persone che ho intervistato sono stanche di vivere in America ma non trovano una ragione sufficiente per tornare in Italia, soprattutto per l’assenza di opportunità. Vivono in una sorta di gabbia. Racconto anche storie di fallimento, non solo di successo: l’America a volte può anche abbagliarti. Per esempio c’è una donna nascondeva la sua omosessualità in Italia: decise di trasferirsi a San Francisco per liberarsi ma non ce la fece ad ambientarsi e tornò indietro nella sua routine».
E tu Elena, continui a immaginare un ritorno in Italia? «L’ideale per me sarebbe trascorrere metà del tempo in America e metà in Italia, soprattutto la meravigliosa estate mediterranea. Dispiace vedere gli italiani politicamente come dei clown. E poi l’economia del nostro Paese si è sempre basata sull’artigianato e sulla piccola imprenditoria, oltre che sulla bellezza dei suoi centri storici: tutto questo lo stiamo perdendo. Svuotare i centri storici per far confluire la gente nei centri commerciali è una cosa che mi fa ridere, soprattutto se penso che in America ci sono centri commerciali che riproducono i centri storici in Italia, con tanto di vicoli e scorci».
Cosa consiglieresti all’Italia? «C’è bisogno di una politica che protegga la piccola imprenditoria e la nostra identità storica e culturale: l’omologazione al modello capitalistico americano è un pericolo. Infine spero che l’Italia non rinunci all’educazione scolastica pubblica perché, vivendo in America, ho visto che le scuole a pagamento o le costosissime università sono uno strumento di discriminazione classista, per creare classi sociali ben distinte. L’Italia, invece, è ancora in grado di offrire un’istruzione per tutti e di formare scienziati e ricercatori bravissimi, riconosciuti in tutto il mondo. Questo è un patrimonio da non perdere”.